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Raccontare l’ossessione d’amore è un’arte, ma anche una sfida. Declinare un pensiero fisso che agli occhi di un estraneo non ha che un nome, non è solo questione di sensibilità, empatia, bravura letteraria. E’ la sfida che ha il carattere del duello, dove l’avversario è il lettore, e la vittoria sta nella capacità di incollarlo alle pagine, di farlo “ossessionare” a tal punto da renderlo schiavo della stessa passione narrata. Fino alla fine e poi oltre, dopo quella che, come mi piace spesso ricordare, è la vita dei libri dopo l’ultima pagina. Il libro di Giorgio Fontana “Un solo paradiso”, Sellerio, racconta l’ossessione di Alessio per Martina. Alessio fa un lavoro imprecisato in una Milano che riconosciamo solo per la toponomastica ossessiva (è davvero il caso di ripetere la parola), e che non sarebbe riconoscibile per null’altro. La sua filosofia di vita, fino a quando non si innamora, è il “dolceamaro contentarsi”: niente di più che una espressione poetica e suggestiva, abbozzata e sostanzialmente irrisolta nella narrazione iniziale. La storia d’amore parte come tante, con la scoperta di una affinità elettiva, il jazz, una scintilla che diverrà fuoco ardente per lui e fiamma che via via si affievolisce per lei. Per non uscire di metafora, il fuoco di Alessio, a storia finita, sarà alimentato dall’alcolismo, che ammala l’ossessione fino a distorcerla. L’alcolismo cancella quella lucida e pura follia che poteva essere materia narrativa feconda. Ci ritroviamo a leggere un elenco di azioni tipiche di chi ha una dipendenza, una collezione di numeri di bottiglie bevute e pasticche ingerite. Ci sono poi un paio di fughe in montagna, la terra natia, alla ricerca di un contatto con una natura anonima, mai davvero selvaggia, mai davvero deputata a quella fisiologica missione del ritrovare se stessi. E Martina? La causa di tutto cosa ha di così speciale? Non riusciamo a capirlo. Non nelle poche pagine in cui si racconta nascita vita e morte dell’amore. Martina è sfuggente, mai disperatamente appassionata, mai in alcun momento “donna angelicata”, perché un po’ ce la aspetteremmo dal titolo. Giorgio Fontana sembra fare suo il “dolceamaro contentarsi”: resta sulla superficie delle cose, non osa, non si perde mai nel territorio dell’ossessione d’amore. Non la corteggia e si limita a sfiorarla, come se ne temesse i risvolti e, per questo, fosse costretto a rendercene conto. Restiamo così spettatori in attesa, lettori annoiati che girano una pagina dopo l’altra per vedere come va a finire e che sanno già che questa storia, succede, finirà davvero con l’ultima pagina.
Può un uomo che non ha mai davvero vissuto alcuna emozione prima, venirne sconvolto a tal punto che quando finisce quel "paradiso" non riesca più a riprendersi? Quando si può dire di aver vissuto davvero? Tanti sono gli interrogativi che suscita la lettura di questo romanzo, che nasce da un dialogo tra due amici che casualmente si incontrano, dopo qualche tempo dall'ultima volta, in un bar ma che in realtà è molto di più. La narrazione delle fragilità affrontate e celate, le emozioni gestite e non razionalizzate, la vita canonica contro la scelta più insensata.