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Ho appena letto in sequenza due libri che hanno, come tema centrale, il degrado che la malattia produce sul corpo e sui sentimenti del malato, quindi non posso che fare un confronto tra le due letture. Ovviamente si tratta di prospettive diverse: qui un figlio, giovane, deve accudire, accompagnare e prepararsi a lasciar andare. Lì una donna anziana deve trovare la strada per uscire dalla propria vita. La narrazione, scarna e quasi cronachistica delle descrizioni di Marco Peano, in una terza persona oggettivizzante, immediatamente, segna la differenza con il senechiano ragionamento di Cesarina Vighy, caratterizzato da una visione amaramente ironica e dal carico degli anni vissuti. Il dolore nel libro di Peano è totalizzante e pervasivo ("Sembra che abbia sua madre morta in grembo"): la madre esiste nel rapporto con il figlio e diventa il centro di ogni suo pensiero e azione, e la sua vita, sbiadendosi lentamente, diventa ricordo già in presenza. Ogni azione di cura viene segmentata e descritta nei più piccoli particolari e l'angoscia sale. Tolto il belletto, resta la nudità, organismo canceroso. Questo libro, così crudo, ma così pietoso, è implacabile nella sua progressione. Non lascia fiato. La morte, quando arriva, non allevia niente ("profondo è il pozzo del passato"), anzi il rimedio al dolore sembra essere l'annientamento di sé. È un libro dolorosissimo, ma anche claustrofobico. L'intento, oltre che la necessità assoluta di raccontare, mi pare quello di trasformare il dolore individuale in uno universale: il dolore di ogni figlio che da accudito deve diventare accudente, da piccolo deve diventare adulto e lo deve fare introiettando la madre, così da trovare dentro di sé le parole che costruiscono il mondo, a partire dalla prima: MAMMA. libr-ida-leggere 📚